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Conversazione con Laminarie (Fabio Acca)

FABIO

In alcune delle ultime produzioni (Elementi da un’autobiografia, 2003; Jackson Pollock. L’azione non agente, 2007) la tessitura dello spettacolo si è caricata di un ulteriore elemento di complessità, dando così alla tipica componente macchinica del vostro teatro una direzione che contempla con maggiore tenacia una direzione oggettivamente testuale. Se prima questo elemento rimaneva come sospeso dentro il volume drammaturgico, ora, anche grazie ad un orizzonte biografico di artisti come Salamov, Canetti o Pollock, è diventato un nodo importante del vostro lavoro. E’ come se la dialettica con la biografia trascinasse con sé una coincidenza testuale più forte. Com’è emersa questa ricerca e che cosa significa anche in termini di performatività applicata?


BRUNA

In generale, la questione relativa ai testi è sempre stata secondaria. Nella creazione partiamo sempre dalla materia e dall’aspetto visivo. I testi sono un aspetto su cui lavoriamo successivamente. Negli episodi che hai citato, trattandosi di biografie, è come se il testo emergesse da una sorta di balbettio. Se nel periodo di Eudemonica avevamo proprio cancellato il linguaggio testuale, qui forse è cominciato un piccolo avvicinamento, per certi versi inconsapevole: un piccolo discorso in cui si inizia a raccontare una storia. E dovendo iniziare a raccontare una storia, abbiamo preferito narrare una storia di vita, perché la biografia è proprio questo, non un semplice testo drammatico, ma qualcosa che ha a che fare con l’esistenza. Può darsi risponda a un tentativo di avvicinarsi alla parola ma anche in questo caso è sempre un lavoro di sottrazione. 


FEBO

In Pollock (lo spettacolo originario, non la performance che abbiamo prodotto successivamente) avevo deciso che, dopo una ricerca approfondita sui testi e sulla sua vita, in scena ci sarebbero dovuti essere altri quattro personaggi, oltre lo stesso Pollock:  le tre donne che lo hanno circondato più il critico Clement Greenberg. Nel corso del lavoro mi si era chiarita questa urgenza, e ho convocato quattro attori. Dovevano corrispondere fisicamente, nelle facce e nei corpi, a questa necessità di presenza. Perciò lo spettacolo è nato, da un punto di vista teatrale, da un disegno quasi “classico”, per poi trasformarsi nel corso del tempo in una performance in cui i personaggi, pur arricchendo sotterraneamente la drammaturgia dell’azione, si trasformano in evanescenze, in suoni che racchiudono la vita di Pollock.


BRUNA

Nella performance il centro dello spettacolo è l’opera. In L’azione non agente era sì l’opera,  ma il primo gesto, il primo impulso della creazione era puntato sulla macchina teatrale. Infatti, il primo elemento prodotto fu il bozzetto di scena. Avevamo immediatamente pensato al ferro, e la parete che nello spettacolo chiude il proscenio doveva ricordare lo scorrere del tempo, il suo avanzare inesorabile, doveva richiamare alla memoria la guerra appena trascorsa, gli anni Cinquanta.


FEBO

E’ stato molto interessante anche lo studio sulla musica. Da questo punto di vista, non conoscevo assolutamente quel periodo, in particolare il bebop e Gene Krupa. Nella performance è Krupa a dare il ritmo al gesto nella creazione dell’opera. Pollock ascoltava moltissimo quella musica, aveva questo ritmo dentro.

BRUNA

Ascoltava musica mentre dipingeva. L’opera di Pollock, in realtà, è una danza.

FABIO

Perché contiene in sé l’esperienza fisica del gesto?


FEBO

Sì, il gesto di Pollock è di natura prettamente teatrale, è un artista figurativo che trascina nella sua opera la presenza e i segni del proprio corpo. Infatti, nella performance On the other Hand c’è da parte nostra la precisa volontà di portare il pubblico dentro l’azione, dentro la polvere, dentro la realizzazione stessa dell’opera. Fin da quando studiavo all’Accademia di Belle Arti ho sempre pensato che l’opera di Pollock avesse un forte valore partecipativo e dicesse: “Guadate da dentro, da dentro la materia!”.


BRUNA

Lo afferma l’opera stessa. Le tele di Pollock devono essere guardate da vicino, pur essendo enormi, per coglierne anche l’aspetto più materico. Questo fatto ti racconta già tutto di lui. L’opera ti deve avvolgere, deve accoglierti. La vicinanza dello spettatore alla tela ha questo significato.


FABIO

Questo nella performance, perché nello spettacolo che ha debuttato all’Arena del Sole la distanza era quella del teatro – diciamo – tradizionale.


FEBO

Certo, in quel caso c’era una parete mobile che si allontanava e si avvicinava, avevamo pensato una cura raffinatissima delle luci e degli oggetti di scena. Nella performance, invece, il concetto è diverso: chiama lo spettatore a entrare nello studio di Pollock, nel suo atelier, in cui tutto è ancora grezzo. Forse, come dice Meldolesi, abbiamo messo in atto un “teatro dell’avvicinamento”, che parte perciò da una distanza. Quando sono in scena, il fatto di sentire il pubblico vicino mi dà un’energia fortissima, anche se magari partecipa malvolentieri perché lo sto inondando di fango. La presenza fisica del pubblico è di grande sostegno all’azione del performer. E anche Pollock, nonostante lavorasse da solo nel proprio studio, invece desiderava avere un contatto diretto col mondo. Voleva dare egli stesso un mondo, non un’opera, e sebbene mettesse se stesso al centro dell’atto creativo, in realtà era una persona molto vulnerabile.


BRUNA

È un arrendersi alla potenza della natura.


FEBO

Come nella tragedia greca. La relazione conflittuale con la natura era un aspetto importante della cultura greca antica. Il Cristianesimo ha cancellato questa espressione dolorosa, potente, in qualche misura sensibile dell’esistenza, sopperendovi attraverso l’attesa di una vita “altra”. L’opera di Pollock richiama profondamente la forma della tragedia, ed è proprio questo che mi ha spinto a metterlo al centro del nostro lavoro teatrale. In fondo c’è un filo conduttore che lega gli “autori” intorno ai quali ci siamo mossi: Salamov, Pollock, la Weil, sono tutte figure vicine a un principio tragico.


BRUNA

Non ci avevo mai pensato, ma con Pollock è la prima volta che l’arte visiva appare dichiaratamente nel nostro lavoro. Tutta la storia dell’arte entra prepotentemente ma qui è assolutamente esplicito.


FABIO

Perché in questo caso è qualcosa che non riguarda solo la materia dell’arte ma la materia vivente del corpo. Il vostro sguardo su Pollock non è unicamente puntato alla sua “produzione artistica” ma anche e soprattutto alla sua condizione di artista dentro la società dell’arte, ed è questo che fa la differenza. Con Malevic, un altro artista a voi molto caro, ho l’impressione che la vostra attenzione sia stata più estetica, sull’opera, perché l’opera di Malevic supera la sua biografia. In Pollock le due cose coincidono.


BRUNA

Non solo per Pollock, anche per Salamov, per la Weil e in qualche modo anche per Canetti.


FABIO

Infatti la mia domanda voleva mettere in luce anche questo aspetto: la dominante biografica dei vostri ultimi lavori sembra porre un’attenzione non solo sull’opera d’arte, ma sulla coincidenza stretta tra arte e vita.


BRUNA

Vita e Opera.


FABIO

Sicuramente, da Elementi in poi, la scrittura scenica di Laminarie si confronta sempre più con una ossessione biografica. La scelta di queste biografie sembra sempre determinata dalla volontà di immergersi dentro figure liminali, portatrici di un differenziale forte.


FEBO

Prima di tutto, ciò che anima queste scelte è un rapporto molto istintivo. Sento queste figure vicine sia per le loro opere, sia per il modo in cui hanno vissuto il mondo dell’arte, sempre viscerale, mai solo intellettuale, piuttosto – come dire – “di pancia”. Questo mi fa essere prossimo a loro in maniera passionale, attiva in me una particolare sensibilità e accoglienza. Provo una sorta di “cura”, che me li fa sentire affini.


BRUNA

C’è un riconoscimento che avviene grazie alla qualità dell’opera che espongono. D’altra parte senti che la straordinaria grandezza di queste persone mette in moto un “combattimento”. E’ necessario innescare un combattimento affinché l’opera, insieme alla vita, possa affermare qualcosa di radicalmente nuovo.

FABIO

Non pensate che in questa vostra ricerca di una coincidenza tra “vita” e “opera” all’insegna del tragico, ci sia forse un alone romantico?


BRUNA

Per quanto riguarda il lavoro su Salamov sicuramente no, nel senso che tutto mirava a restituire la bellezza di una scrittura secca, procedendo dunque per eliminazione. Per Pollock questo rischio era evidente, trattandosi di un artista che negli Stati Uniti è considerato un mito: genio e sregolatezza, alcolizzato… Abbiamo cercato in tutti i modi di evitare queste questioni.


FEBO

Su questo punto vorrei tagliare corto, perché va detto chiaramente che la parte migliore della sua produzione artistica è stata realizzata in una condizione di assoluta lucidità. L’alcolismo di Pollock è stato molto strumentalizzato e c’è ancora chi sostiene che gettasse il colore sulle tele in preda a chissà quali stordimenti. Ci tengo invece a ribadire che era perfettamente sobrio. Piuttosto Pollock andrebbe inquadrato come una figura capace di rappresentare una forma di vulnerabilità.


BRUNA

Comunque, quando abbiamo iniziato a lavorare su Pollock non abbiamo pensato a queste cose. Il combattimento innescato da Febo è partito ancora una volta dalla materia. Avevamo intuito che la potenza di Pollock proveniva dalla natura, dalla terra, dal ventre, dal posto in cui viveva e che abbiamo visitato a lungo. Un luogo ventoso, a stretto contatto con una natura forte, con alberi smisurati immersi in una natura prepotente. Ritengo che l’opera di Pollock sia tutto questo, non altro: esprime il suo tentativo di entrare in relazione con una materia forte, con questa materia madre.


FABIO

Sì, però non vi spinge a misurarvi direttamente con una forma di scrittura drammatica. Ho l’impressione che sia invece la biografia a connettere questo primo impulso magmatico della creazione, questa necessaria condizione di matericità del vostro lavoro, con una retorica inscrivibile in un codice teatrale che non esclude, per esempio, forme narrative. Un aspetto che a mio parere emerge con maggiore chiarezza anche nelle tante creazioni teatrali dedicate negli ultimi anni all’infanzia, in cui avete spesso recuperato un rapporto testuale per certi versi speculare alla centralità con cui l’elemento biografico entra nelle vostre produzioni maggiori. Come è nato, dunque, questo vostro interesse per l’infanzia?


BRUNA

Prima di Tu misura assoluta di tutte le cose, ossia quando ancora non avevamo fondato Laminarie, avevamo però condotto per tre anni attività laboratoriali. Eravamo due coppie: noi insieme a Fabiana Terenzi e Clodomiro Colonna. Un’attività intensissima che poi abbandonammo con il debutto del nostro primo spettacolo per adulti. In seguito abbiamo recuperato in qualche modo questa esperienza, dal 1999, con La guardiana delle oche.

In principio il nostro lavoro conteneva anche degli aspetti, potremmo dire, “civili”. Infatti, il primo laboratorio fu realizzato dentro un campo profughi a Svignano Mare, nell’ex-Yugoslavia. Fu comunque utile per capire anche un parametro di distanza, ciò che non avevamo piacere di fare, come per esempio i laboratori nelle scuole, dove non veniva accolto il nostro metodo. La scuola aveva - e ha - bisogno di un teatro pedagogico, che a noi non interessa per niente. Piuttosto, ci interessava un teatro dello stupore, del gioco, dello spaesamento. 


FEBO

Un teatro in cui il bambino è il centro della creazione. Chiedevamo a tutto il personale della scuola di cambiare il proprio ruolo se partecipava ai laboratori: dovevano anche loro smettere di fare le maestre o i bidelli, per essere al servizio del bambino e dell’avventura.

Per un po’ è andata bene. Siamo riusciti a trovare alcune scuole in cui abbiamo lavorato molto serenamente, riuscendo a realizzare attraverso il teatro quel rapporto tra istituto e città che ci interessava. In particolare in una scuola materna di Cattolica: avevamo fatto un lavoro sul mercato del pesce, così portammo i bambini in città e chiedemmo invece ai commercianti di venire a scuola per interpretare il ruolo dei mercanti nella fiaba Il lupo e i sette capretti. Un altro aspetto che la scuola non accettava era l’invasività della scena. Fin da allora per noi l’aspetto visivo è sempre stato determinante, quindi quando proponevamo un laboratorio significava riorganizzare profondamente lo spazio scolastico in funzione del lavoro teatrale. Sempre a Cattolica, per esempio, avevamo ricostruito interamente il mercato, avevamo portato sette capretti veri e illuminato tutto con delle lampade a petrolio. Inoltre, c’era anche un’invasione psicologica, forse ancora più penetrante. Spesso però era impossibile lavorare con le scuole, dove tutto era edulcorato, a partire dai colori delle pareti. Rappresentavano un’infanzia deformata, contraffatta, che non potevamo accettare. Allora trapanavamo i muri, mettevamo cavi d’acciaio e allestivamo una stanza nera: ristrutturavamo lo spazio per indurre chi partecipava a non riconoscere più quel luogo come “la scuola”, ma un luogo altro, un teatro.


BRUNA

Il desiderio di fare una produzione teatrale dedicata all’infanzia nasce perciò in stretta relazione alla volontà di lavorare sugli spazi, che è un aspetto fondamentale del rapporto tra il bambino e la sua condizione di spettatore teatrale. Il primo pensiero che abbiamo avuto, dunque, riprendendo a distanza di anni a lavorare “con” e “per” i bambini, è stato quello di “avvicinamento”. Dobbiamo sempre pensare che il bambino di tre o quattro anni non ha la medesima sensibilità spaziale di un adulto: se segue un’azione teatrale, non lo può fare da lontano, da una distanza convenzionalmente tarata sulla percezione di un adulto, ma da vicino, da una distanza  più piccola, appunto “bambina”.

L’altro punto importante era la ricerca della meraviglia e dello spiazzamento, in uno spazio in cui dovevamo trovare delle linee di forza attraverso delle nostre scelte. L’obiettivo non era, però, portare il bambino in un luogo che contenesse già in sé una bellezza o una possibilità dichiarata di stupefazione; piuttosto era necessario fargli vivere l’esperienza  del meraviglioso là dove non si sarebbe aspettato di trovarla. 

Affrontammo per la prima volta questo problema nel 1999 con La guardiana delle oche, che realizzammo in uno spazio sconosciuto alla maggior parte delle persone che partecipavano. Si accedeva da un piccola porta e, una volta attraversato il corridoio, ti trovavi non in un giardino ma proprio in mezzo a vigne, campi, orti, un vero pezzo di campagna nel pieno centro di Bologna, in via Orfeo. Questo era già uno spiazzamento interessante da percorrerre, però non ci bastava, volevamo portare il bambino anche dentro il percorso esistenziale del protagonista. Così pensammo che non dovevamo solo avvicinare il bambino ai personaggi in un luogo sorprendente e sconosciuto, ma dovevamo anche metterlo nelle condizioni di poter vivere la presenza stessa dei personaggi: cavalli, greggi, oche, duecento pesci… La guardiana, inoltre, viveva in una serra diroccatata e la sua storia aveva un aspetto cupo, ridotta com’era alla povertà dal cavallo, a cui poi veniva mozzata la testa.

Nel teatro per l’infanzia, a differenza di quello per un pubblico adulto, le parole sono veramente molto importanti, ma lo sono nella loro linearità di senso. Non devono assolutamente essere ricamate, sono strumentali alla vicenda narrata. Rispetto a un adulto, il bambino che segue il racconto deve poter essere messo nelle condizioni di accompagnare il protagonista nelle sue vere difficoltà e deve poter credere che costui riuscirà a risolverle. Il bambino si identifica fortemente con l’attore. Non solo, quindi, è necessario abolire la distanza fisica tra il bambino e l’accadimento, ma anche la distanza mentale. Infatti a volte i bambini parlano con gli attori durante lo spettacolo. Tuttavia, pur cercando questa vicinanza, non volevamo in alcun modo ammiccare al pubblico e l’attore, di conseguenza, doveva recitare mettendo in atto una forma di straniamento. 


FEBO

Anche in Le ferriere di Efesto sono presenti moltissimi testi, quindi probabilmente c’è un avvicinamento alla parola. Si partiva dal negozio del fabbro e si arrivava in teatro. Efesto era uno spettacolo che aveva inizio da una vera ferriera di Porretta Terme. Ci offrirono di lavorare ad un progetto che doveva nascere in un luogo specifico, per poi essere trasformato in uno spettacolo per il palcoscenico. Molti dei nostri lavori vengono inizialmente progettati in spazi particolari, e in seguito riadattati ad uso del circuito teatrale. 


BRUNA

Jack e il fagiolo magico, addirittura, è nato al Cassero, sede del Centro Nazionale Gay-Lesbico! Uno spettacolo itinerante per bambini al Cassero non è una cosa così usuale: non ne avevano mai fatto prima e mai più ne hanno fatto dopo. Bambini e famiglie intere servite da drag queen!


FABIO

Mi sembra però che in Jack e il fagiolo magico gli attori intrattenessero con i bambini un rapporto anche più caldo: c’era il narratore, c’erano i personaggi. Era in atto una modalità che realizzava limpidamente il rapporto con il testo. Come scegliete le fiabe su cui costruite i vostri lavori per l’infanzia?


BRUNA

Da una parte è molto importante la radice popolare della fiaba, perché porta con sé una struttura archetipica. Poi però scegliamo fiabe poco note, perché su quelle più note – pensiamo alla Cenerentola di Walt Disney – si è sedimentato inevitabilmente un immaginario che ha trasformato la seduzione originale della fiaba, spesso disinnescandone gli elementi più minacciosi. Perciò, devi fare una fatica doppia. Se però ti interessa la struttura e non la drammaturgia, cioè il percorso conoscitivo del protagonista, è meglio scegliere una fiaba meno nota, che ti dà la possibilità di concentrare l’attenzione sul processo e non sul fatto narrativo.


FEBO

L’immaginario stratificato nel tempo intorno a una fiaba è fortissimo. Abbiamo cominciato con le fiabe popolari meno conosciute, proprio perché volevamo dare ai bambini la possibilità di incontrare una fiaba non addomesticata. È necessario invece mantenere i sentimenti di gioia, dolore o terrore che spesso vengono mimetizzati. La fiaba popolare narra un percorso esistenziale, perciò ricco di emozioni incontrollabili e contraddittorie; al contrario il pubblico ha bisogno di un linguaggio rassicurante. Per questo occorre ogni volta cercare dal profondo delle modalità di creazione vere. Lo dico per me stesso, altrimenti sarebbe una delusione e non sarei convinto del mio lavoro.

A questo proposito, ci tengo a ricordare il rapporto che abbiamo avuto con lo scrittore bulgaro Jordan Radickov, autore trasversale di opere dedicate sia ai bambini che agli adulti. L’abbiamo conosciuto in occasione di Eudemonica, appunto in Bulgaria, e su un suo libro intitolato Noi Passerotti abbiamo realizzato Bisce. Radickov usa la natura, gli animali, per parlare dell’uomo, riuscendo così a trasmettere al bambino valori etici e politici. E’ un autore di classici. Quando l’abbiamo incontrato di persona pensavamo ci insultasse perché avevamo utilizzato la sua opera senza chiedere alcun permesso, perdipiù in un momento in cui era candidato al Nobel. Invece era commosso, e ci ringraziò moltissimo. E’ stato importante in una fase del nostro lavoro, e forse è stato una chiave essenziale per entrare in contatto con la parola.


FABIO

A questo punto, però, vi porrei una domanda essenziale: il corpo del bambino? Nella vostra poetica spesso da una parte c’è la matericità assoluta, paradigmatica del ferro, che dialoga con la fisicità altrettanto potente di Febo e l’estensione drammatica degli oggetti; dall’altra la presenza tutt’altro che fragile del bambino. Come convive questo corpo dentro il campo di equivalenza tracciato da queste funzioni, da queste temperature della scena? Di cosa è portatore il corpo del bambino in termini teatrali?


BRUNA

Il bambino, in genere, è colui che non recita. Piuttosto porta in scena se stesso, porta l’imprevedibilità, come l’animale, e in questo senso è sicuramente importantissimo, direi addirittura indispensabile. Il bambino richiede agli attori che condividono la scena con lui di misurarsi con la sua potenza ed è altrettanto potente della materia, al punto tale che a volte può anche mandare tutto all’aria. Potresti accorgerti, per esempio, che concentra l’attenzione troppo su di sé, relegando il resto ad una funzione di contorno.


FEBO

Il bambino non deve mai essere esplicitamente il portatore di un talento scenico. Il bambino “saputino” è la rappresentazione televisiva del bambino. Nel nostro lavoro, il bambino in scena è come un animale non addestrato. Ciò che ha un significato forte è la sua presenza, con il suo corpo, con la sua voce. E’ semplicemente uno “stare” in scena. Gli attuali riferimenti culturali portano il bambino a replicare la recita televisiva mentre è necessario restituirgli la sua originalità profonda, il suo istinto scenico. Ecco, il nostro lavoro mira esattamente a questo.


BRUNA

Per noi è forse più semplice, perché nella vita siamo circondati da bambini. Non voglio usare una terminologia troppo enfatica per ciò che ha rappresentato nella storia del teatro, ma forse Laminarie potrebbe essere accostata ad una famiglia d’arte. Sara ha questa capacità di stare in scena perché è nata e vissuta insieme al nostro teatro. Stare a contatatto con la genialità dell’infanzia ti fa nascere il desiderio di produrre spettacoli per l’infanzia ma, nello stesso tempo, questa infanzia gioca anche a nostro vantaggio. Alla fine credo che la cosa più importante, più forte, sia  sempre la bellezza.


FEBO

In Storia Senza Nome, per esempio, Sara esegue una vera e propria coreografia con Simona Bertozzi. E’ stato molto importante riuscire a realizzarla e Sara interagiva perfettamente con il corpo di Simona. Simona ha un grande talento è un’altissima preparazione tecnica: Sara si è tuffata dentro il lavoro, lo ha preso in mano e l’ha condotto dall’inizio alla fine.


FABIO

Quando parliamo del bambino ci riferiamo non solo al bambino dentro la scena ma anche al bambino spettatore. Quali sono le reazioni che avete colto in questi anni nel pubblico dei bambini?


FEBO

Il bambino è molto più selettivo dello spettatore adulto. Chi frequenta il teatro di ricerca ormai è abituato alle convenzioni di quel contesto e, per esempio, applaude genericamente dopo ogni spettacolo. Il pubblico dei bambini è ancora vivo, ha voglia di dirti “non mi piaci”,  “vai via”! Sa ancora dire dei “no”.


BRUNA

Il ritmo del bambino attore è quello innato della natura animale e coincide con il ritmo dello spettatore. Il ritmo dello spettatore bambino è però diverso da quello dell’adulto. Se con quest’ultimo può essere interessante costruire una relazione in momenti di grande silenzio, con il bambino è difficilissimo. La pausa, il ritmo, hanno un altro significato. Mentre il ritmo del bambino attore ha a che fare con l’imprevedibile, col fatto che ti metti in gioco e non puoi avere il controllo esatto del meccanismo teatrale. 


FABIO

Però un bambino di 8 anni oggi è già strutturato. Non ti misuri con la “natura” ma con un assetto che porta con sé i propri segni e i propri automatismi linguistici. Per esempio, devi fare i conti con un diversa velocità di attenzione, perché il bambino assorbe immediatamente le modalità comunicative dei meccanismi di linguaggio a cui è soggetto durante la vita quotidiana.


BRUNA

Per questo è importante, fin da subito, aprire le porte della meraviglia, creare questi spiazzamenti. Quando entra in una dimensione teatrale, il bambino deve percepire immediatamente di essere in un altro luogo, in un altro pianeta, un gioco in cui vigono regole diverse da quelle a cui è sottoposto nella vita quotidiana.


FABIO

Direi, a questo punto, che il titolo del libro in cui comparirà questa nostra conversazione potrebbe essere: Laminarie: un teatro per un altro pianeta. Che ne dite?

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