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TRA TRAGEDIA E FIABA (Claudio Meldolesi)

Nell’ambito del teatro di tragedia si colloca questo gruppo, perché nato guardando alle scene novecentesche che fecero dell’etica un luogo della loro identità e di nuova bellezza, specializzato dal rapporto diretto con la sofferenza, l’umiliazione, l’inadeguatezza. Ma poi quella diffidenza per la consequenzialità astratta delle parole ha distanziato le Laminarie dall’ eloquio tragico come dalla logica suasiva del senso politico. Esse chiedono così allo spettatore di partecipare agli enigmi della tragedia che la scena gli offre con il senso della tragica impotenza che è quotidianamente da lui stesso sperimentata, sapendo degli eccidi nel terzo mondo come assistendo a soprusi del dominio nel suo habitat. Sicché il Gestus di questo teatro prevalentemente visivo consiste nell’attivare lo spettatore attirandolo nell’ingiusto e, da qui, inducendolo a interrogarsi e a decifrare a suo modo i segni oscuri che segue sulla scena.

Per Laminarie l’arte teatrale è anzitutto esistenza scenica pervenuta ad aperture reali alla vita, inclini all’etica non meno che al bello. Parliamo, fra l’altro di un teatro che ha sostenuto degli sviluppi comunitari in gara con la casualità in scena: dove hanno potuto naturalizzarsi oche e palme, un fagiolo magico e segni di violenza, l’infantile, l’oscuramente consapevole e isolate individualità utopiche.  Di qui l’importanza della dimensione euristica stessa in tale sviluppo: potendo in essa cogliersi il fattore che ci sta permettendo di considerare in queste Laminarie un gruppo rappresentativo di un fermento diffuso. In questi teatri infatti la disposizione immaginativa non è separabile dalla ricerca, dal suo bisogno di conoscenze: parliamo infatti di un teatro che ha fatto, sia delle sue aperture vibranti al reale, sia della rarità di compiutezze, valori distintivi.

Tragica è la realtà che Laminarie assume e che ci chiede di riconsiderare straniandoci dalle nostre tranquillità illusorie, come dal falso senso del dolore che la spettacolarizzazione televisiva alimenta. Tanto che ormai i cimiteri sono tenuti lontani dalla vita metropolitana e gli ospedali sono organizzati come quartieri a se stanti: dove si passa solo per bisogno individuale come solo per bisogno civile si conosce Mostar, la città martoriata dove Laminarie ha più operato nella ex-jugoslavia, quale gruppo di teatro antibellicista guidato da un regista attore e da una drammaturga studiosa, aperti un po’ a tutte le competenze sceniche: così vivendo ogni loro messainscena per il raggiungimento di equilibri imprevisti come per la possibilità di bruciarvi al contempo poco dominabili inquietudini. 

Ma fin d’ora è importante aggiungere che il creare drammatico e quello spettacolare sono stati coniugati da questo gruppo, per interrogazioni prima tenebrose e poi soprattutto esperienziali.  

Quindi, non possono che essere dialettici gli sviluppi scenici di Laminarie, che si sono misurati  nelle loro prime prove anche con la fiaba popolare nella produzione di lavori dedicati all’infanzia. 

La compagnia si muove così in discontinuità fra la sfera dell’oscurità politica e quella del fiabesco, prendendo a riferimento, nel primo caso, il teatro in pieno buio di Grotowski e Kantor, e nel secondo, quello agli antipodi in piena luce di Propp. 

Il teatro delle Laminarie si è messo in cerca di nuovi sviluppi drammaturgici tramite sfide in-genue che vanno dalle fiabe al tragico.

Perché il fiabesco e il tragico forniscono alle vicende drammatizzate delle disposizioni narrative, insieme, centrali e liminari: essendo ambedue portatori  di percorsi destinati alla fragilità e all’evidenza. 

Cosa che può dirsi fondativa per il nostro gruppo, giunto a creare su ambedue i territori anzidetti, come se fossero unitari nell’intimo; per cui fiaba e tragedia possono dirsi inevitabili antefatti per questo teatro.

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Socialmente preziosa e teatralmente raffinata si è fatta e ancor più tende a farsi la scena delle Laminarie, di queste presenze sceniche radicate alla terra nuda. E non a caso, già uno spettacolo volto a “trovarsi” come Tu, misura assoluta di tutte le cose era potuto giungere così a un raro disequilibrio che, senza cadute nel pessimismo, trasmetteva il convincimento di una sostanziale impossibilità di potersi esprimere.

Questo ci chiama a riflettere sulla ricchezza di tale gruppo umile nel senso in cui questo aggettivo è caro a Taviani: rimasti in rapporti con la terra, la materia. 

Tu misura assoluta di tutte le cose del 1996 è tutto incentrato su immagini seriali di sedie imprigionate: quasi il loro soggetto fosse destinato alla morte “fotografata” nell’ultima immagine, che suppone realizzatasi una nuova età del fango.

“I pensieri sono gravi, pesanti, compressi all’interno del corpo, la voce fatica ad uscire, la respirazione è affannata, movimenti appena evidenziati dalla caduta dall’alto di stantuffi che comprimono l’aria. Ogni figura reagisce a suo modo allo stato di costrizione”.

In realtà, ambedue le figure di scena hanno ceduto all’ “oppressione” e lo spettacolo manifesta il suo sviluppo inevitabile alla Beckett.

Questo gruppo adolescente, per così dire, sa far teatro inquietante bruciandovi la sua forte acculturazione. Così, anche nel fango che occupava il palcoscenico nei suoi primi tempi sembrava che fossero messe alla prova le teorie professate e che quelle sopravvissute a tale selezione fossero solo tenute in vita per il futuro, divenendo nel presente visioni originarie e intime per gli spettacoli seguenti. 

Ciò posto, è evidente che la nostra definizione di gruppo adolescente è tutt’altro che limitativa: piuttosto, essa tende a sottolineare l’esuberanza del cercare propria a Bruna e Febo e, ancor più, il fatto che tali artisti vivono ancora anni di autorivelazione, essendosi rifiutati di cambiare atteggiamento operativo privilegiando il mero perfezionamento formale dei loro spettacoli. 

E si direbbe altresì che, per volgere i loro spettacoli alla dialettica del bello e del vero, Bruna e Febo continuino a concepire azioni da un  fermento di motivi sempre aperto. Poiché essi mirano alla creazione di mondi, anziché a forme nell’insieme prevedibili ed equilibrate; sicché per chi scrive è stato illuminante vedere, vari anni dopo,in tre edizioni, ciascuna con un suo divenire, Jack e il fagiolo magico.

La novità di Jack e il fagiolo magico rispetto alla rappresentazione delle fiabe consiste nel trovarsi  come spettatori dentro lo svolgimento della Fiaba che vive di una interessante invenzione teatrale e  di  una splendida  valorizzazione della funzione fiabesca come dice Propp. 

Quando Laminarie va nella Ex-Jugoslavia, ancora lacerata dalla guerra civile, s’insedia in prossimità del fronte: questo rivela che l’esserci è la qualità primaria, distintiva e del tutto originale, di questo gruppo. C’è da supporre che Febo - artista di grande capacità fabbricatrice - e Bruna abbiano intuito la possibilità di far teatro delle fiabe al fianco della Raffaello Sanzio, che ne hanno fatte di molto belle. Però si tratta di esiti diversi, perché in questo caso la Fiaba è fiaba, anche in senso un po’ ebete dove tutto va bene, non c’è la fiaba tronca, oscura, cui ricorrono i Castellucci, ma si ride, si è felici, i bambini dormiranno sereni e noi ci siamo sentiti molto bene. L’aver seguito lo Spettacolo per i suoi luoghi deputati - come Giuliano Scabia insegnava al DAMS - è normale, ma non è normale il fatto di essere messi in una condizione ravvicinata, anzi ravvicinatissima, con gli eventi. Accade che la fiaba abbia costituito un elemento di articolazione drammaturgica per Brecht mentre in questo caso, al contrario, lo spettatore è coinvolto direttamente e mentalmente in scena. Definirei quindi il teatro di Laminarie come il teatro del ravvicinamento, perché essenzialmente Bruna e Febo si sono riuniti su l’idea di un teatro anticonvenzionale e lo hanno nutrito di sfide  con le fiabe e le altre forme di teatro che hanno realizzato. Il principio è, appunto, quello dell’azzeramento delle convenzioni in senso non naturalistico, in senso lirico. Però il loro approccio non è simbolista, ma è molto più diretto e coinvolto. Siamo interni alla fiaba. Mi viene in mente Totò che dice il riso si patisce: siamo interni al patire questa fiaba, allora tutto diventa bellissimo: il fatto di trovarsi lì, avendo per guida un’attrice splendidamente en travesti infantile, è bellissimo stare in mezzo a disegni affascinanti, è bellissimo giocare in questo spettacolo. 

 Laminarie invece ci porta sul Fronte, ci porta nell’autobiografia, nella logica di eliminare la distanza, è un teatro anti-brechtiano, che giunge a questa soluzione anche attraverso Brecht, attraverso la Weil, probabilmente attraverso la letteratura, la filosofia. Perché non è anti-etico, il suo  avvicinamento inizia da una distanza. 

Nella varietà del Teatro di origine romagnola Laminarie rappresenta un gruppo straordinario, antico e strategico. Come  famiglia d’arte, che ci pone in contatto con la pregnanza delle cose, e ci costringe a essere presenti  nella guerra della ex-Yugoslavia, come nelle autobiografie indicandoci  la possibilità del teatro di fiorire dentro i fatti. Febo Del Zozzo e Bruna Gambarelli hanno generato Laminarie combinando sulla scena estreme iniziative militanti ed espressioniste nonché puntando a manifestare ciascuna azione dal suo interno. Nei fatti questo teatro è cresciuto tra ricerche visive e filosofiche e solo l’esperienza poteva mantenere attivo il senso di questi affiancamenti.Le dimensioni del visivo e dell’immaginifico, che Febo da sempre riporta alla luce con modalità oscure e ossessive come solari e ritmiche, sono centrali per questo gruppo.

Credo che questa famiglia d’arte non s’interromperà qui, che col tempo gli attori riprenderanno a cercare dagli inizi è questa una dinamica che soccorre l’identità del teatro nel tempo dello scempio televisivo, perché consiste di rovesciamenti delle ‘notizie in tempo diretto’, e dimostra che l’esserci nelle storie umane è il contrario del riprodurle. Bruna e Febo ci permettono di abitare nei mondi che rappresentano e quindi siamo davanti alle grandi magie del teatro. Questo gruppo è giunto ad una particolare maestria all’interno di un territorio per nulla scontato. La forma assume in ogni arte una differente fenomenologia, sebbene dei fattori di ricorrenza ancora poco studiati segnalino in più casi delle permanenze espressive in tali diversificazioni. E ciò risulta ancor di più vero per il teatro, essendo stati, lungo tutto il Novecento, i teatri d’arte dei sobillatori di costanti transitive. Perché il vero, oltre che il bello, e l’incompiutezza, oltre che la messa in forma, hanno pilotato questa storia teatrale novecentesca.

Comunque Febo continua a portare questo teatro  sulle spalle come Atlante e Bruna non si stanca di  giocare  con esso come fosse una palla.

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